Un Pò di Storia - AT Proloco di Villanovetta

A.T.Proloco Villanovetta
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Un Pò di Storia

Il paese si stende ai piedi delle basse pendici delle Prealpi e precisamente del lungo dorsale che, facendo da spartiacque fra le Valli Varaita e Bronda, digrada verso il piano. Esso segna il passaggio fra la zona collinare e quella di pianura, sorge a 439 m. s.l.m. e dista 25 km. da Cuneo. Confina a nord con il capoluogo (Verzuolo), a sud con i Comuni di Piasco e Costigliole, a est con la Regione Chiamina e ad ovest col dorsale collinare. Caratteristica, in comune con altri centri, è stata la tendenza a svilupparsi lungo un asse stradale principale (l’antica via Maestra o “strada Soprana”, oggi via Griselda), dominato dalla chiesa parrocchiale, fattore primario della vita pubblica. L’apertura della parallela via C.V.Drago (l’antica “strada Sottana” o di Valle Varaita) risale al 1858-59.Nell’architettura del paese, sono tuttora facilmente riscontrabili le tracce della vecchia ruralità, intesa come autentica vita legata in un rapporto profondo con i campi: ampi cortili, pozzi (oggi asciutti), stalle trasformate in rimesse auto, porticati convertiti in alloggi. Intatta è comunque rimasta la struttura dell’abitato, l’urbanistica che connota il paese. L’espansione di questi ultimi decenni è avvenuta invece senza alcun rispetto per la struttura antica, ma piuttosto attraverso la monotona ripetizione di identici fabbricati costruiti, sembra, con lo stampo o la fotocopiatrice.La superficie del territorio è di ha. 346,58 con preponderanza della pianura rispetto alla collina. Questa, pur occupando in superficie una certa entità, ha oggi scarsi riflessi sull’economia del paese che trae le sue maggiori risorse dai terreni di pianura dove la frutticoltura ha ormai acquistato larga prevalenza fra le altre attività cui era in passato dedita la popolazione rurale.
Il Bedale del Corso

Questo corso d’acqua che scorre in due rami attraversando da sud a nord il territorio di Villanovetta, vanta una presenza forse di un migliaio di anni, costituisce un elemento caratteristico dell’ambiente urbano e appartiene al profilo del paese sul cui patrimonio architettonico ha avuto grande influenza. E’ soprattutto il Bedale del Mulino a richiamare la memoria di altri tempi neanche tanto lontani (prima delle trasformazioni della società contadina) quando, rappresentando il petrolio dell’epoca, alimentava lavori e professioni oggi scomparse: il mulino (macinazione dei cereali, battitura della canapa e torchio per l’olio di noci), la filanda e la fucina; non solo, ma era largamente utilizzato dalle donne quale lavatoio pubblico. L’unica utilizzazione che si è conservata è la funzione irrigatori della campagna circostante. Una Relazione circa le opere fatte eseguire lungo le sponde del Bedale detto del Mulino di Villanovetta, inviata alla Magistratura nel 1848 relativamente alla vertenza insorta tra il proprietario del locale mulino (avv. Giuseppe Drago) e quello del filatoio da seta (banchiere Vincenzo Capello), ci offre una descrizione accurata e precisa del corso d’acqua e delle attività servite:“ La Città di Saluzzo deriva le acque dalla Varajta ai limiti territoriali di Piasco e Costigliole ed il canale delle derivanti acque dopo la loro presa prende la denominazione di Bedale del Corso, e dal quale Bedale del Corso a m. 2100 circa inferiormente alla presa dalla Varajta trovasi al punto dei confini territoriali di Piasco, Costigliole e Villanovetta, stabilita la derivazione del Bedale del Mulino di Villanovetta. Questo Bedale, detto del Mulino di Villanovetta, da detta derivazione alla foce del Rivotorto nella fuga di m. 730 riconfluiscono scoli di tre Bealere del Piasco. Dalla foce del Rivotorto allo Scaricatore del Mulino di Villanovetta, sulla lunghezza sviluppata di m. 900, si scaricano le acque dei rivi di San Bernardo e di Villanovetta, a m. 35 inferiormente allo scaricatore suddetta vi è la balconera del Mulino di Villanovetta, a m.130 inferiormente a detta balconera, il detto Bedale arriva e sottopassa il Filatoio del Signor Capello, ed indi dopo m. 125 rimette tutte le acque nel Bedale del Corso. Da quale derivazione deducesi che il Bedale del Mulino di Villanovetta ha la lunghezza di m. 1920”.

Il Bedale del Mulino si sviluppava dunque così:
m. 730 dalla derivazione (ai confini con Piasco) alla foce del Rivotorto;
m. 900 dalla foce del Rivotorto allo scaricatore del mulino;
m. 35 dallo scaricatore alla balconera;
m. 130 dalla balconera al Filatoio;
m 125 dal Filatoio allo scarico nel braccio destro del Canale del Corso.
Il MULINO DI VILLANOVETTA

Senza più ruote da far girare, sopravvive oggi stentatamente con un modesto filo d’acqua che non ha neppure la forza di trascinare via i rifiuti inquinanti che vi vengono buttati, denunciando l’identità “negata” di un territorio trasformato e violato, la responsabilità dell’uomo di fronte al paesaggio, pesantemente condizionato dal progresso. L’invito che viene da questo corso d’acqua è, quello di una maggior passione per la natura, di un concreto rispetto per il patrimonio ambientale, da tutelare come bene primario legato al concetto di sviluppo e di “qualità della vita”.

IL CASTELLO

La più antica notizia risale a una carta del 1278, quando il marchese di Saluzzo Tommaso I (1240-96) lo concesse in feudo con il paese ai Signori di Venasca. A quell’epoca esso faceva parte del sistema di difesa del marchesato insieme ai castelli di Saluzzo, Manta, Verzuolo, Costigliole, Piasco e Rossana. Con quello di Verzuolo era collegato da un condotto sotterraneo.
Costruito in posizione sopraelevata dominante il villaggio, esso era molto simile alla fortificazione fatta costruire nel 1336 in Valle Varaita dal Delfino Umberto II e che, nella denominazione di Castrum Delphini, ha conservato il termine nella toponomastica locale per l’abitato di Casteldelfino. La struttura architettonica del castello comprendeva un muro di cinta, delle torri, una sede di comando, una cappella e diversi ambienti su tre piani. All’interno della corte si trovavano le strutture di servizio con il forno, la cisterna e una peschiera.
L’11.8.1386, investito dalle truppe di Amedeo VII di Savoia (1360-91) detto il Conte Rosso, il castello era occupato, il paese (compresa la chiesa parrocchiale) saccheggiato e gli abitanti trucidati.
Il 15 febbraio di due anni dopo, il marchese Federico II (1332-96) riconquistava Villanovetta e cacciava dal castello il presidio lasciato dai Savoia: nel corso di quelle operazioni restava ucciso il Priore Vittore de’ Falletti.
L’antica fortezza subiva danni irreparabili, tanto che si avviava lentamente al declino e oggi, sullo sperone che sovrasta il paese all’altezza dell’ala pubblica, non ne restano che scarse tracce.
LA CASA COMUNALE

L’autonomia amministrativa di Villanovetta venne sancita con atto 12.6.1311 sotto il marchese di Saluzzo Manfredo IV (1296-1340): con esso il paese veniva staccato da Verzuolo e iniziava un percorso che sarebbe terminato seicento anni dopo con il D.M. 15.3.1928 che lo r'iaggregava a Verzuolo. Prima dell’Unità d’Italia la Comunità si è retta con gli Statuti concessi il 12.9.1534 da Francesco (1498-1537), penultimo marchese di Saluzzo.
La casa comunale, demolita e sostituita in anni recenti dall’abitazione dell’ing. Carlo Gozzarino, sorgeva a sinistra dell’ala pubblica e consisteva al piano superiore di una vasta camera arredata semplicemente e raggiungibile con una ripida scala di 33 gradini; il piano terreno, ora box auto, era occupato dalla prigione.
Nel 1887 sorgeva in via Griselda (l’antica via Maestra o via Soprana) il nuovo edificio comunale destinato ad ospitare anche alcune classi delle scuole elementari, oltre all’ufficio postale e telegrafico. Prima d’allora l’istruzione scolastica era impartita in ambienti privati presi in affitto.
Inaugurate il 25.5.1968 le nuove scuole elementari, il vecchio edificio (che conserva un aspetto di severa dignità con lo stemma del Comune al centro del timpano) è stato adattato ad alloggi popolari.
L’ ALA PUBBLICA

Punto di richiamo anche visivo, estensione di spazi chiusi e importanti come la chiesa e il municipio, luogo di riparo dalla pioggia, dalla neve e dal freddo per artigiani itineranti (coltellinai, impagliatori di sedie, stagnini), è stata ovunque, con la fontana pubblica e il forno comunale, occasione di arredo e decoro urbano.
Il sistema costruttivo è una struttura perimetrale portante in laterizio intonacato, costituita per due lati da muratura in comune con gli edifici adiacenti e per gli altri due da pilastri, collegati da archi ribassati sul fronte principale, a sezione quadrata o a “L” per quello angolare. Il basso muro perimetrale ha un’altezza dal pavimento variabile dal fronte principale a quello laterale. L’orditura del tetto a tre falde è formata da due capriate semplici intervallate da una falsa incavallatura e porta il manto di copertura in coppi. La pavimentazione è in battuto di cemento, rialzata dal livello stradale di circa m.0,50.
La funzione dell’Ala era anche quella di contenere l’Albo Pretorio cioè l’esposizione in pubblico degli Atti deliberati dall’Amministrazione comunale. Ecco il resoconto di un verbale di fine Settecento: “Nel giorno di ieri come festivo di domenica per difetto di mercato, nell’uscir il popolo dalla prima messa parrocchiale e maggior concorso d’esso, avanti il solito Albo Pretorio, previo il solito suono di tromba, il serventi di Comunità Giacomo Ferrero ha pubblicato il soprascritta Atto consolare ed in segno di pubblicazione ha la presente copia affissa, ed affissa lasciata al detto Albo Pretorio fin al tramontar del sole, acciocché ognuno avesse il comodo di leggerlo o farselo leggere, ad esclusione d’ignoranza”.

LA CHIESA PARROCCHIALE

La prima pietra venne posta dai feudatari conti Cravetta il 29 maggio 1752 “attesta l'agustezza e pessimo stato in cui trovasi la presente chiesa parrocchiale” costruita in stile gotico forse avanti l’anno mille. Nonostante le “somministranze e alloggiamenti sofferti durante la scorsa guerra” [guerra per la successione austriaca 1743-47] i Particolari Con signori del luogo fecero delle offerte consistenti; si poté contare anche sopra una “ellemosina di persona che si è per tal fatto distinta”.

Gli altri abitanti “non ostanti le miserie e scarsezza di viveri in cui restano costituiti, procurano con luoro travaglij socorer detta fabricha”: l’espressione del verbale si riferisce alle “roide” che vennero costituite tra coloro che non potevano in altro modo dare un contributo all’edificazione della chiesa, salvo mettere a disposizione le proprie braccia, oltre a carri e animali per il trasporto dei materiali.

La nuova chiesa venne a sostituire la precedente, di proporzioni modeste e piuttosto rozza, dovuta ai benedettini dell’abbazia di Villar San Costanzo (fondata nel 713) che, attorno all’anno 1000, avevano preso l’iniziativa di dotare questo modesto villaggio di un edificio religioso con adiacente cimitero. A tale abbazia la parrocchia di Villanovetta fu soggetta fino alla sua soppressione, nel 1803.

Costruita su progetto dell’ing. Castelli in un sobrio stile barocco piemontese, possiede una gradevole decorazione pittorica risalente al 1908 dovuta a Giovanni Stura di Torino. L’ancòna (o pala) absidale, di autore ignoto che celebra la gloria del titolare sant’Andrea apostolo, porta la data 1770 e risulta essere stata restaurata nel 1873 con un delicato intervento dal pittore Netu Borgna di Martiniana (1854-1902) che l’ha strappata al degrado restituendole i colori e la freschezza dell’originale. Il campanile, su progetto dell’arch. Carlo Antonio Borda di Saluzzo, fu eretto nel 1778.
LA VILLA DEI CONTI CRAVETTA

Si trova a metà della via Alberto Keller, una volta Contrada del Mulino, al centro di una proprietà inserita tra otto massicce torri (di cui ne restano cinque) in un delizioso ambiente rallegrato da acque, giardini, viali e prati, a fianco di fabbricati rustici che mettevano in risalto la residenza di villeggiatura dei feudatari conti Cravetta, una famiglia appartenente al patriziato saviglianese che ha avuto sino alla fine del Settecento intensi rapporti con il nostro paese.
Questa villa di campagna, dalle forme aggraziate e piacevoli, dà risalto alla suggestione del paesaggio che la circonda, sapientemente inserito tra i due corsi d’acqua del Bedale del Corso. Soprattutto d’estate, ma pure nelle belle giornate primaverili e autunnali, la splendida posizione della residenza agreste affascinava gli ospiti nell’accattivante scenografia della villa e del vasto parco circondato dalle acque.
Fu il re di Francia Enrico II nel 1549 a investire della contea di Villanovetta Alessio II Cravetta (1504-1569), già Consignore di Casalgrasso, uno dei figli del celebre Aimone principe dei giuristi piemontesi e studioso di livello europeo. L’investitura venne confermata da Carlo Emanuele I nel 1611 dopo che, con il Trattato di Lione (1601), il marchesato passò dalla Francia ai Savoia.
Acquistata in proprio nel 1820 da mons. Carlo Vittorio Ferrero della Marmora, Vescovo di Saluzzo dal 1805 al 1824, passò per testamento alla sede vescovile che nel 1871 la diede in affitto al cav. Alberto Keller che, sostenuto dal Priore don Guglielmo Paschetta, la adattò ad asilo infantile per i bambini delle proprie dipendenti. Nel 1902 l’allora Vescovo mons. Mattia Vicario la vendette al nipote Keller per 15.000 lire e nel 1908 questi, anche lui Alberto, ne fece dono all’asilo.
Dal 25 al 29 luglio 1849, mentre Pio IX era esule a Gaeta e l’arcivescovo di Torino Mons. Fransoni a Lione, in questa villa si riunirono a Congresso i Vescovi del Piemonte per affrontare gli aspri contrasti che dividevano allora la società civile da quella religiosa. In quella occasione fu presente, in qualità di segretario del Vescovo di Pinerolo mons. Lorenzo Renaldi, il chierico Leonardo Murialdo (1828-1900), che sarà dichiarato santo il 3 maggio 1970.
Nonostante il fabbricato abbia subito dei rimaneggiamenti per adattarlo alla sua funzione educativa, tutto il luogo conserva inalterata il fascino dell’ambiente seicentesco quando sulla strada polverosa passavano, con un allegro tintinnare di finimenti e il tonfo degli zoccoli dei cavalli, le carrozze dei Conti Cravetta dirette alla loro villa estiva.
LA FILANDA

La tradizione industriale di Villanovetta risale al 1728 quando risulta già esistente un Filatoio con una macchina, poi salita a dodici nel 1752 (proprietario il conte Giuseppe Martin d’Orfengo di Torino). Nel 1815 occupava 35 operai e 133 operaie (anche giovani e giovanissime, 11-12 anni) il cui orario di lavoro era dal levare al tramontare del sole. Nel 1796 passò in proprietà al banchiere torinese Giuseppe Cottolenghi per il prezzo di 60.000 lire. Nel 1827 occupava 35 operai e ben 133 operaie. Nel 1853, proprietario il banchiere torinese Vincenzo Capello, venne acquistato dal nob. cav. Alberto Keller.

La mappa di un catasto francese del 1810 mostra il grandioso complesso che, già allora, si sviluppava su una vasta estensione racchiudente ben tre cortili. Per tutto il secolo l’economia del paese ha ruotato attorno alla seta: allevamento dei bachi a livello familiare e occupazione (soprattutto femminile) nello stabilimento serico.

L’attività della Filanda venne bruscamente interrotta da un furioso incendio che il 29 settembre 1905 distrusse lo stabilimento e mise in ginocchio l’economia di tante famiglie per le quali la seta rappresentava una preziosa fonte di sopravvivenza. La costituzione nello stesso anno a Verzuolo di una Cartiera da parte dell’ing.Luigi Burgo venne a rimediare in parte alla disoccupazione prodottasi.
Ciò che restava del Filatoio Keller venne acquistato da Burgo nel 1910 e adattato ad alloggi per gli operai che nel 1977 ne sono diventati proprietari. Oggi rappresenta un bell’esempio di archeologia industriale, muto testimone di un’epoca dominata dai bachi, la cui storia si è intrecciata a lungo con le vicende delle “filere” e delle filande.
Il fabbricato racconta oggi un tempo irripetibile, non lontano ma già mitico, muto testimone di un recente passato, ignorato dai passanti frettolosi che non sentono più raccontare del lavoro delle “filere” e non odono più i loro malinconici canti.
Attualmente, una parte di fabbricato non esiste più, il suo posto è stato preso da P.zza Schiffer.
L’OSPEDALE PER POVERI E INDIGENTI

La casa posta all’incrocio tra via C.V.Drago e via Keller, il cui piano terreno è occupato oggi da uno sportello della Banca di Credito Cooperativo di Bene Vagienna, è stata in passato la sede di un ospedaletto per poveri e indigenti. Messa a disposizione della Congregazione di Carità dai proprietari Antonio Rivoira e sorella Paolina Lucia, in questa casa si dava assistenza a quanti, ai margini della società, potevano contare unicamente su una carità organizzata localmente, senza interventi pubblici.

Era ricovero di cronici, ambulatorio, infermeria per soccorsi urgenti, qui venivano distribuiti vestiario e soccorsi:
la Congregazione di Carità risale al 1720 e qui ha svolto una nobilissima funzione, anticipatrice delle moderne provvidenze sanitarie e assistenziali.

Le Congregazioni di Carità erano state anticipate dalle Confratrie che, negli Statuti Comunali del 1534, dovevano rispettare le seguenti prescrizioni:
I Priori eletti o da eleggersi delle Confratrie di Villanovetta devono investigare beni, cose e diritti delle Confratrie affittando;
 concedere in lavoro o in pensione o diversamente secondo parrà loro più utile secondo dato giuramento;
 collocare i ricoverandi nelle case delle Confratrie e curarne gli interessi”. Era il welfare dell’epoca, privato, generoso, efficiente.
LA CAPPELLA DI MADONNA DELLA NEVE

Questa cappella campestre risulta citata per la prima volta in un documento del 1381. Nel 1871 il Priore don Paschetta dice che già “nell’anno 1630 il 5 di agosto era considerato e festeggiato come giorno di festa di precetto; nel Filatoio e Filanda non si lavora come pure si astengono dal lavoro tutti li abitanti di questo Comune”: una consuetudine e una tradizione ininterrotte di circa quattrocento anni che fanno della “Madonna della Neve”la titolare della festa patronale della parrocchia, il polo aggregante dei cittadini attorno alle funzioni religiose e alle manifestazioni tipiche delle sagre, in un clima di festa familiare.
A quell’epoca la cappella campestre era dedicata a “Santa Maria” in ricordo della nevicata miracolosa avvenuta a Roma il 5 agosto 352 che indicò il luogo e la forma di una basilica da costruirsi sull’Esquilino in onore di Maria SS.ma. Costruita l’anno successivo, essa è quella celebre di Santa Maria Maggiore”, una delle quattro basiliche patriarcali di Roma, così chiamata per ricordare il grado che essa occupa tra le molte altre chiese dedicate alla Madre di Dio, primo santuario mariano dell’Occidente.
Il 1630 è l’anno della peste (la peste bubbonica colpì Villanovetta a più riprese, soprattutto nel 1630 quando provocò ben 300 morti) e allora, quando qualcuno presentava i sintomi del morbo i familiari lo trasferivano presso questa cappella e i morti venivano seppelliti ai piedi degli alberi circostanti. Nel secolo successivo, settembre del 1712, sotto gli stessi alberi trovarono sepoltura parecchi soldati francesi che, scesi dalla Valle Varaita, tentavano di raggiungere Saluzzo ma, furono fermati dai soldati austro-sardi in uno di quegli scontri che vanno sotto il nome di “battaglia di Papò”.
Nel 1766 il Priore don Carlo Giuseppe Marini, soddisfatto del procedere dei lavori per la costruzione della nuova chiesa parrocchiale, modificò la dedicazione della cappella da “Santa Maria” a “Madonna della Neve”; questo anche per rispondere all’iniziativa del papa San Pio V che nel 1568 (duecento anni prima) aveva inserito nel Calendario Liturgico la dedicazione di Santa Maria “ad Nives”.
Pare che quella sia stata un’antica zona cimiteriale se nel 1901, scavando per abbattere noci secolari, si rinvennero scheletri rivestiti di corazza, visiera ed elmo. Nell’Ottocento invece nel corso delle Rogazioni, che si svolgono ancora oggi il 25 aprile, alla cappella convenivano le donne allevatrici di bachi con al collo un sacchetto contenente il seme-bachi per ricevere la benedizione che avrebbe protetto i delicati bruchi dalle malattie e facilitato la produzione di abbondanti e preziosi fili di seta.
Scriveva nel 1898 il Priore don Garnero che “alla cappella della Madonna della Neve si convoca la gente tuonando una conchiglia a modo di corno”; il campanile, infatti, fu costruito solo nel 1930 e la campana collocata nel 1934. La tradizione di suonare le conchiglie durante la Settimana Santa era diffusa in tutto l’Ottocento specie nel Canavese ed è documentata ancora a Foglizzo a metà del secolo scorso. L’uso di tuonare la conchiglia può essere ricondotto alla consuetudine, una volta assai diffusa, di utilizzare raganelle o scarabattole e tarabacule, oltre che conchiglie, nel giorno del Venerdì Santo, quando con la morte di Cristo il tempo si ferma e le campane tacciono tristemente.


PERSONAGGI

Belliardo don Giorgio (1919 - 1981)
Coadiutore del Priore di Villanovetta dal 1943 al 1967, Parroco di Pagno fino al 1972 e poi di Costigliole Saluzzo fino alla morte, nell’autunno del 1951 fu il geniale ideatore della Scuola Professionale di Addestramento Lavoratori che sorse nei locali dell’oratorio parrocchiale messi a disposizione dal Priore mons. Perrone. Tali locali sono quelli ancora oggi adiacenti al campo sportivo ricavato nel 1940 da una vigna della superficie di 45 tavole.
La scuola venne due anni dopo trasferita presso la “Casa della Gioventù” della parrocchia maggiore di Verzuolo, per consentirle i necessari sviluppi. Altri locali furono provvisti dal Comune, divenne statale e si trasformò prima in I.N.A.P.L.I e quindi in A.F.P (Azienda Formazione Professionale), avviando al lavoro centinaia di giovani ben addestrati e qualificati.
Colombo Domenico Carlo Giovanni (1866-1933).
Nacque a Villanovetta il 2 novembre da Luigi Colombo, originario di Mandello Lario e qui trasferitosi al seguito del cav. Alberto Keller, nuovo titolare della Filanda. I Colombo erano imparentati con don Achille Ratti, Papa Pio XI nel 1922. Nel 1878 il padre acquistò il setificio di Revello dove Domenico sposò certa Maria Fillia di Martiniana Po. Nel 1904 nacque un nipote cui venne imposto il nome del nonno, Luigi. Legato da grande amicizia con Guido Keller, sarà un esponente autorevole del movimento futurista torinese (in arte “Fillia”).
Della Chiesa Francesco Agostiono, dei Conti di Cervignasco (1593-1662).
Fu Vicario Generale dell’Abbazia di Villar San Costanzo e Priore di Villanovetta dal 1620 al 1642 (all’epoca in cui infierì la peste di manzoniana memoria), quando fu elevato alla sede vescovile di Saluzzo. Svolse una intensa attività di storiografo di Casa Savoia. Nel palazzo civico Saluzzese è ricordato da una lapide dettata da Delfino Muletti.
Dumontel Gilberto.
A metà della centrale via Drago è la residenza di campagna dei Dumontel, una famiglia scomparsa nell’immediato dopoguerra e il cui palazzo ha subito purtroppo irrimediabili modifiche. Erano una delle più prestigiose famiglie di banchieri e filandieri francesi che in Piemonte avevano avviato o rilevato “molini da seta” nei quali, nella seconda metà dell’Ottocento, avvenne la conversione di tanti braccianti e piccoli fittavoli in proletariato operaio.
I Dumontel disponevano di ben cinque filande: a Canelli a Ciriè, a Benevagienna, a Castelletto Stura e a Carrù; quest’ultima era ritenuta uno “splendido stabilimento” che faceva della cittadina monregalese uno dei centri più importanti del cuneese nella produzione serica.
Griselda.
La sua storia risale attorno all’anno Mille, ai tempi forse precedenti quelli della Contessa Adelaide e prima che i discendenti di Bonifacio del Vasto si stabilissero in Saluzzo. Scrisse mons. Carlo Fedele Savio che “più ancora che per le imprese e glorie dei suoi marchesi, Saluzzo è passata nella letteratura di tutte le nazioni per i casi pietosi di Griselda”.
La storia di Griselda fa dunque parte di quella cultura orale che si è tramandata attraverso i secoli. Prima che i libri esistessero, gli unici modi per raccontare e tramandare il sapere erano l’arte e la tradizione orale (come diceva Gregorio di Tour “Pochi capiscono il retore che fa filosofia, molti il contadino che parla):
- Le arti figurative e plastiche, come anche l’architettura, nascondono spesso straordinarie conoscenze che, aggirando il diffusissimo fenomeno dell’analfabetismo, si esprimono disegnando delle immagini..
- La tradizione orale si esprime attraverso proverbi, detti, canzoni, filastrocche che finiscono per diventare un patrimonio comune. Tradizioni più complesse si traducono invece in favole, racconti e leggende.
- La cultura dotta, quella di alto livello, si è espressa nel Medioevo principalmente attraverso tre autori di grande statura artistica: Dante (1265-1321), Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375).
- Nei secoli le due culture, la popolare e la dotta, si sono incontrate e influenzate a vicenda sino a produrre la cultura moderna e contemporanea. Del primo autore il Comune di Verzuolo custodisce preziosi frammenti di un codice della Divina Commedia, risalenti alla seconda metà del XIV secolo (lo stesso della morte di Dante). Il terzo ha ripreso dai racconti popolari la storia di Griselda e l’ha inserita a chiusura del suo Decamerone. Il secondo è colui che, traducendo la stessa novella in latino, l’ha diffusa e fatta conoscere a tutta l’Europa dotta.
La storia di Griselda, che la tradizione colloca a Villanovetta in Regione Riva Bassa, prima di arrivare all’orecchio del Boccaccio doveva essere da lungo tempo popolare e se mai qualche parte di verità era al suo fondo, già la leggenda l’aveva trascolorata e portata ad un estremo che pare di mito addirittura.
Essa è stata sin qui relegata nel campo del folclore, mentre merita invece di essere considerata anche sotto altri aspetti che ne mettano in risalto gli insegnamenti, suscettibili di utili approfondimenti.
Nel 1992 l’antica Via Maestra o Strada Soprana (ora via Griselda), una strada silenziosa e discreta, è entrata nel regno della fantasia con l’apposizione sui muri delle case di dieci pannelli che ne illustrano altrettanti episodi e che, riprendendo la tradizione antica, affidano alla pittura il compito di illustrare ai cittadini e ai passanti le vicende della più bella e celebre ragazza del paese.
Dove è possibile, non si usa più realizzare il museo del territorio, ma nel territorio. E’ l’ecomuseo che rifiuta la tradizionale collezione rinchiusa in un edificio, per valorizzare invece l’intero patrimonio urbanistico. E’ il territorio che diventa museo, in cui la popolazione stessa si prende cura dei propri beni tradizionali e culturali, esaltandone l’originalità conosciuta e apprezzata in tutta Europa.
Keller nob. cav. Alberto (1800-1874).
Di origine svizzera (Zurigo), è stato una straordinaria figura di imprenditore intelligente, coraggioso e generoso, un industriale d’avanguardia ricco di iniziativa, fantasia e inventiva, ma anche un benefattore illuminato a vantaggio dei suoi dipendenti (mensa aziendale, scuola domenicale, asilo infantile, sostenitore delle Società Operaie di Mutuo Soccorso, ecc.). Un uomo che ha dato un poderoso sviluppo all’azienda, tanto da superare i seicento occupati.
Con testamento dell’ 1.12.1873 dispose la cremazione della sua salma. La società milanese che si occupava di tanto, era stata infatti costituita dallo stesso Keller, che dettò l’epitaffio per la propria tomba:
Penetrato dello scopo filantropico della cremazione dei cadaveri voglio che le mie spoglie mortali siano al mio trapasso incenerite.

Una disposizione insolita per quei tempi, che non rivestiva alcun significato antireligioso, ma precorreva soltanto i tempi.
Keller Guido (1892-1929).
Erculeo pronipote del cav. Alberto, spirito irrequieto e avventuroso, asso dell’aviazione, legionario fiumano, squadrista, fu segretario d’azione di Gabriele D’Annunzio, amico di Marinetti e di Fillia. Il 14.11.1920 lasciò cadere su Montecitorio da un aereo un “arnese di ferro smaltato”, il più usato e arrugginito che gli era riuscito di procurarsi (un pitale), con delle rape legate al manico e un messaggio di disprezzo per il Parlamento e il Governo. Ancora due anni e ci sarà la Marcia su Roma e l’inizio dell’avventura fascista
Vittima del mito chiamato velocità, quando sulle nostre strade il limite era di appena 15 km/h., si schiantò nel 1929 a Magliano Sabino, in provincia di Rieti. In un telegramma D’Annunzio disse che “Guido Keller era una grande anima infelice che meritava una morte violenta ma gloriosa”.
Ludovica di Villanovetta.
Verso la metà del Settecento il “gioco di Genova” o gioco del Lotto (detto anche tassa sugli imbecilli) non avveniva come oggi unicamente sui numeri, ma su novanta nomi fissi di sessanta Cavalieri e trenta Dame. Al n. 4 compariva appunto Ludovica di Villanovetta (possiamo presumere che appartenesse alla famiglia saviglianese dei Conti Cravetta), al n. 26 Paola di Levaldigi, al n. 27 Marta del Castellar e al n. 28 Angela di Paesana.
 
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